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QUANTO VENDO SE SONO GAY FRIENDLY?

Aggiornamento: 30 lug 2020


 

Sono passati 5 anni dal primo acerbo articolo che scrissi basato su questo tema:

lo sfruttamento dell’omosessualità nella pubblicità.



Con nemmeno troppo stupore, torno oggi su quegli argomenti con la certezza che i miei pensieri erano fondati.

Le tematiche LGBT+ vendono bene e il mercato lo sa.

Ho ripreso coscienza di questo proprio quando un cliente mi chiese di creare diversi visual fra cui uno con la tematica LGBT+ per far conoscere i propri servizi anche a quel tipo di pubblico. Non voglio mettere in dubbio la limpidezza delle sue intenzioni però mi ha dato da riflettere.


Fino a una decina di anni fa difficilmente una azienda avrebbe cambiato la propria politica tradizionalista riguardo questo argomento per accontentare un pubblico (non solo il consumatore finale) ma oggi la pressione dei social e dell’opinione comune è stata in grado di stravolgere totalmente le convenzioni della comunicazione pubblicitaria. Esempio chiarificatore fu quello che accadde nel 2013 a Guido Barilla che non crocifiggo per un suo pensiero personale, tuttavia di vedute ristrette ma, per la leggerezza con la quale ha espresso un concetto pericolosissimo quando si parla di comunicazione, cioè quella di escludere una comunità da un mercato ampissimo che è quello della pasta…che mangiano praticamente tutti:

(discorso più ampio riferito al ruolo della donna in pubblicità)

“Diciamo che noi abbiamo una cultura vagamente differente. Per noi il concetto di famiglia sacrale rimane uno dei valori fondamentali dell’azienda. Non faremo uno spot con una coppia omosessuale perché la nostra è una famiglia tradizionale. Se gli piace la nostra pasta e la nostra comunicazione va bene altrimenti ne possono mangiare un’altra. Possono fare quello che vogliono senza disturbare gli altri. Ognuno a casa è libero di fare quello che vuole. Pensi io sono favorevole ai matrimoni gay ma una cosa che non rispetto è l’adozione nelle famiglie gay. Un essere umano può essere disturbato dalle decisioni degli altri”

Nella sua intervista nata da una discussione più ampia, inconsapevolmente è caduto nel tranello del parere personale rispetto ad una linea comunicativa aziendale che ha un pubblico che necessariamente non può avere una etichetta di nessun tipo. Ancora una volta i social e le opinioni dei consumatori hanno stravolto la situazione, bombardando il web con l’hashtag #boicottabarilla in cui anche i competitor hanno sfruttando l’onda proprio come ha fatto l’azienda Garofalo.



Non mi stupisco quindi del cambio di rotta subito effettuato dall'azienda dopo questa dichiarazione, calcolando che una enorme fetta del fatturato proviene dall'estero dove le comunità LGBT+ sono molto più attive e presenti e dove la “Corporate Equality Index” stila periodicamente una classifica delle aziende più attive e aperte a tutti i tipi di comunità.

Un anno dopo Barilla diventa Gay Friendly e nasconde la polvere sotto il tappeto.


Barilla 2018 - artwork by Olimpia Zagnoli



Non poniamoci come giudici di nessuno, ma riflettiamo su questo esempio non per sottolineare che i tempi sono cambiati per l’opinione pubblica ma che lo sono per le aziende che hanno bisogno di aggiornare il proprio glossario pubblicitario e i propri creativi.

Non basta inserire una coppia omosessuale o gender in una pubblicità per far capire le nuove filosofie adottate dai brand. Questo proprio perché il risultato non dovrebbe essere percepito come: “SIAMO ANCHE PER TUTTI GLI ALTRI”, ma: “SIAMO PER TUTTI, PUNTO” e non abbiamo bisogno di dimostrarlo.

Non serve un genio né una accurata ricerca per vedere che negli ultimi 5 anni, in maniera timida ma presente, molti brand si sono affacciati a questo argomento proclamandosi quasi portavoce di nuovi valori ed esprimendo a livello percettivo il concetto che:

SCEGLICI, SIAMO DALLA TUA PARTE.

Stare dalla parte della comunità LGBT+ significa stare dalla parte del successo assicurato e del progresso.

Dobbiamo essere onesti, la comunità LGBT+ spende e tanto. Spende più della controparte etero, ma soprattutto spende bene e questo perché hanno una cultura non solo più aperta ma più approfondita su molteplici aspetti. Hanno la capacità di scegliere molto bene i prodotti e spendere anche di più per averne di buoni. Si prefiggono degli obbiettivi chiari e influenzano le persone che hanno intorno e questo non è solo per una questione di simpatizzare per un’ideale ma paradossalmente per la pressione di una “nuova morale” in cui tutti vogliono stare dalla parte dei “buoni” quando in realtà questo valore nel marketing non ha davvero peso. Ma l’illusione funziona bene.


Se sono Gay Friendly sono progressista, se sono Gay Friendly sono buono, se sono Gay Friendly sono cool, se sono Gay Friendly vendo di più.


Lo sa Burger King nota catena di fast food, che per il Gay Pride di Los Angeles ha incartato i suoi panini nella carta arcobaleno col motto: DENTRO SIAMO TUTTI UGUALI



Lo sa la Banca AZN di Sydney che sempre per il Gay Pride ha reinventato i propri ATM vestendoli di pattern e grafiche più vicine alle comunità LGBT



Lo sa Coca Cola, lo sa Amazon Prime, lo sa Starbucks e un milione di altri brand



D'altronde oggi quale brand sarebbe così stupido da essere in contrasto con questo ideale?

Sicuramente nessuno di quelli che ha partecipato al Pride Month, la più grande orgia visiva di sfruttamento delle icone LGBT che l’umanità abbia mai visto. La semplificazione per eccellenza di un argomento davvero tanto complesso Incartando di arcobaleno ogni oggetto sugli scaffali e non.

Ha spazzato via anni di soprusi e silenzi?

No, ma ha fatto vendere di più!


Questi i risultati di un piccolo sondaggio fatto sul mio profilo Instagram. Le prime due stories si riferiscono direttamente all'uso del colore e come ci fa cambiare opinione su una scelta avendo comunque gli stessi prodotti. Purtroppo ci sarebbero da calcolare molti più fattori in realtà come per esempio l'associazione della parola "pride" all'arcobaleno che ormai fa parte della nostra abitudine.

L'ultima stories invece era una sorta di trabocchetto o provocazione. La mia domanda si riferiva al bisogno della sete e in realtà entrambe le acque andavano bene...perchè sono sempre e solo acqua a prescindere dal rivestimento. Non dovremmo farci plagiare ne dal claim ne dai colori vivaci.


Sia chiaro, queste non sono accuse morali. Nel marketing la morale è un concetto davvero molto relativo, ma sono "scappellotti" ai consumatori che purtroppo non hanno sempre gli strumenti per comprendere le strategie del mercato. Il marketing è una scienza che serve a vendere e non a creare cultura. Per quello c'è la comunicazione, ma ne parleremo in un'altro post.


E quindi siamo così facili da plagiare? Forse siamo solo inconsapevoli di leggere fra le righe o di avere un potere che viene dalle nostre opinioni? Tutto quello che vedete sugli scaffali sono sempre e solo oggetti in vendita, e l’essere accompagnati da una dicitura che dimostra al pubblico che una parte dei proventi andrà in beneficenza a qualche associazione umanitaria o comunità LGBT+, non farà di quel brand davvero un portavoce della lotta per la comunità. D'altronde l'aiuto sincero si fa in silenzio ma questo non significa necessariamente una cosa negativa, ma che semplicemente nel marketing esistono delle regole che riguardano spesso l'immagine e la percezione che si da di un brand.

Il 2020 è l’anno Gay Friendly per eccellenza, oltre che quello della propaganda buonista, e la comunità LGBT+ è diventato ufficialmente un target di marketing.

Bastasse veramente un panino al Burger King per estirpare l'omofobia nel mondo saremmo tutti obesi, o no? Be’, sicuramente troppo pesanti per muoverci, almeno eviteremmo di fare danni irreversibili ad altri.

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